Maestro indiscusso della ristorazione italiana ha collezionato 5 stelle Michelin, ora coordinatore del comitato scientifico di Gambero Rosso Academy nel segno della "Cucina Circolare".
A fine 2017 si trasferisce a Roma per l’apertura di un nuovo format di ristorazione al ristorante Mercerie, dove continua la valorizzazione dei prodotti tipici Italiani abbinati alla ricerca, alla sperimentazione e alla contaminazione con altre culture e i loro prodotti, presentando una cucina creativa, ricca di riferimenti alle tradizioni ma che non finisce mai di stupire, provocare e evolvere.
Igles arriva alla ribalta nazionale e internazionale tra gli anni ottanta e novanta, come chef dell’ormai mitico ristorante Il Trigabolo di Argenta, in provincia di Ferrara. Nei quattordici anni a capo della brigata di cucina, che ha poi prodotto molti chef di successo, raccoglie numerosi riconoscimenti, oltre all’assegnazione di due stelle dalla Guida Michelin, collocando il Trigabolo tra i primi ristoranti d’Italia del periodo e contribuendo all’avanzamento della cucina italiana con piatti considerati oggi storici.
Nel 1996 Igles si sposta di pochi chilometri aprendo il proprio ristorante, La Locanda della Tamerice, immersa nelle valli di Ostellato. Nei successivi quattordici anni riceve nuovamente una stella Michelin e consolida la sua posizione di Maestro della Cucina Italiana.
Dal 2010 al 2017 è stato l’executive chef del ristorante Atman, in provincia di Pistoia, dove il suo lavoro di ricerca e la sua passione per il servizio lo portano a ricevere riconoscimenti importanti, come l’assegnazione della stella Michelin.
Igles è autore di undici libri di cucina, tra i quali i più recenti “La caccia di Igles e dei sui amici, e “Il Gusto di Igles”.
Dal Trigabolo passando alla cucina garibaldina fino ad arrivare alla cucina circolare
All’inizio della mia carriera, quando negli anni ottanta ho cominciato a lavorare nelle cucine del Trigabolo di Argenta, mi sono ispirato ai maestri che mi avevano preceduto. Primi su tutti Nino Bergese, cuoco dell’aristocrazia italiana di metà del novecento, e successivamente chef del San Domenico di Imola e al suo erede Valentino Marcattilii, poi al grande Gualtiero Marchesi, per arrivare a “competere” con i colleghi come Gianfranco Vissani e altri chef di punta del periodo. Senza trascurare l’influenza d’intellettuali come Carlo Petrini, che ci ha ricordato che un piatto per essere buono, oltre ad essere cucinato bene, deve essere anche pulito e giusto, e Luigi Veronelli figura centrale nella valorizzazione e nella diffusione del patrimonio enogastronomico italiano.
Alla fine degli anni ottanta la sperimentazione nelle cucine professionali ha iniziato una drammatica accelerazione. Tra i primi in Italia, ho scoperto il pacoject, macchina rivoluzionaria e all’avanguardia per i tempi, poi il sottovuoto, non solo utilizzato per la conservazione ma anche per la cottura, i distillatori, gli affumicatori e gli ultrasuoni, solo per citarne alcuni. Un’evoluzione rapida e inarrestabile che si esprime in varie forme, come nel lavoro di Ferran Adrià, dove la tecnica e la morfosi diventano quasi ossessive, oppure con Heston Blumenthal dove l’esperienza coinvolge tutti i sensi, o Renè Razpecki e la nuova Nordic Cuisine, dove la raccolta dei prodotti selvatici diventa il fulcro della cucina.
Negli anni ho involontariamente acquisito una ricca collezione di ricordi visivi, olfattivi, gustativi, sonori. Una collezione arricchita da incontri e letture, da errori e successi. Una memoria gastronomica che inevitabilmente condiziona oggi il mio approccio alla cucina. Come i prodotti, puliti, tagliati, conservati e cotti reagiscono ai vari trattamenti e come interagiscono fra loro, sia dal punto di vista organolettico, sia da quello estetico e socio-culturale.
La cucina garibaldina, termine che ho cominciato a usare nel 2010, per descrivere il mio personale approccio alla cucina fatta di ricerca dei migliori prodotti che il nostro bellissimo paese produce, una cucina che appunto unisce l’intera Italia.
La mia cucina è comunque sempre in evoluzione, e inevitabilmente diviene più complessa e articolata. Oggi il mio approccio a un prodotto, sia esso un finocchio o un gambero, è il medesimo. Vedo il prodotto come un’entità complessa, composta di varie parti, a volte ovvie e visibili, altre non immediatamente distinguibili. Utilizzo ogni parte per ottenere preparazioni diverse che possono culminare in un unico piatto o disperdersi in una moltitudine di preparazioni diverse.
Come accade in natura, nulla viene trascurato, buttato, tutto viene trasformato, attraverso processi specializzati e successivi, in una moltitudine di altri prodotti. L’intero processo è ciclico, circolare, da un’entità complessa, attraverso successive trasformazioni, si passa a una semplificazione che non è altro che il punto di partenza di nuove entità più complesse. Il moto è circolare, perpetuo, che può, evolvere nel tempo, intraprendendo direzioni diverse, rimanendo pur sempre circolare.
Ecco cosa intendo quando con il mio stile scherzoso invito le persone a fare il cerchio e dire, tutti insieme: CUCINA CIRCOLAREEEE!